APPROFONDIMENTI



BIBLIOGRAFIA

-Cecil Balmon,  Element, Prestel 2006
-Ralph Waldo Emerson, Natura, Donzelli editore 2010 (1836)
-Frank Loyd Wright, Writings and buildings, 1957 

 Per i principi e le parole:
-Raffaella Laezza L’architettura della Linea Terra, Osiride 1999


 Per il concetto di codice genetico:
-Raffaella Laezza Peter Eisenman, Città della cultura della Galitia Unicopli, 2003
-Frei Otto, Architettura della natura, Il Saggiatore 1982




INTERVISTA A RAFFAELLA LAEZZA
su presS/Tletter n.05-2008

LETTURE D'AUTORE a cura di Diego Barbarelli
Lo sguardo dell'architetto ci conduce alla lettura di un capolavoro di architettura (con passione e competenza). Le domande possono essere sostituite, integrate e manomesse in qualsiasi modo.

Risponde: Raffaella Laezza
1. Lo studio di quale opera è stato fondamentale nella sua formazione di architetto?
2. Per quali motivi  (ne citi da due a quattro) ritiene quest’opera ancora attuale?
3. In quali caratteristiche del suo progettare ritiene l’abbia influenzato?
4. Ci segnali un articolo o un libro o una rivista da suggerire a chi vuole approfondire lo studio dell’opera (opzionale)

1. Nessuna opera d’architettura ha radicalmente cambiato il mio pensiero da quando ho visto per ore, d’aereo, il deserto del Gobi, bianchissimo, in continua mutazione di forme, in Cina. Da quel momento ho pensato che tutta l’architettura, per me, assumeva un nuovo significato se vista rapportata a quella natura. Mi spiego. Non è la sua dimensione territoriale bidimensionale (dimensione che il 900 ci ha già consegnato e che, per ora, è satura) e nemmeno quella paesaggistica romantica. Ho pensato, che un’opera d’architettura dovesse nascere nel suo rapportarsi primariamente al suolo, morbido, in movimento esattamente come apparentemente ci fa vedere il Gobi. Ma esso, grandissimo, ci suggerisce all’opposto una nano-lettura del DNA, vero e proprio DNA della terra, che è pattern vettoriale. Spaziale.  Terra-architettura, suolo-architettura, natura-architettura, spazio-transnaturality sono sempre più oggetto di ri-nominazione..
Natura è parola vaghissima… intendo semplicemente natus, origine delle cose, codice figurativo genetico. E così, avendo già scritto "L’architettura della Linea Terra" ho voluto provare a dare quel natus al mio progetto. Questo è significato dare vettorialità, al mio lavoro: il tutto è capitato in coincidenza con la scoperta degli strumenti adatti, informatici. Il digitale, circa dieci anni fa, era lì pronto a aiutarmi a fare questa operazione. La vettorialità è implicita nel deserto del Gobi, come in qualsiasi evento naturale che sta alla base di ciascuna  architettura. "I talentuosi pattern naturali" di cui ci parla Cecil Balmond. Attraverso questa connessione è possibile dare una spazialità all’architettura che mi interessa. Non è né attuale né inattuale. E’ sperimentale. E pronta alla costruzione. Per paradosso è stato proprio quel momento del digitale che mi ha fatto riscoprire la concretezza dell’architettura.
Fino a quel momento, però, ero centrata sulla Casa del fascio di Giuseppe Terragni, e dalla sua traslitterazione eisenmaniana, in particolare le cartesiane Houses e il più recente, ground-project- del Centro della Cultura di Santiago. Entrambe si rapportano alle onde lunghe della memoria. La prima alla memoria come storia dell’architettura; la seconda alla memoria come memoria della natura. Memorie diversissime ma sovrapponibili continuamente.

2. Per questo motivo non credo di essere colpita da opere attuali o inattuali ma piuttosto da architetture che saltano i tempi brevi della storia, dell’attuale, e passano alle onde lunghe.
Mi è capitato, tempo fa, di visitare una piccola chiesa, nuova, fatta da monaci anonimi, scavata nella roccia, colma di luce…. 

3. La lettura del pattern naturale, vettoriale, implicito nel landscape, e la fissità cartesiana delle opere di Giuseppe Terragni sono entrate nella mia sperimentazione linguistica  in modo semplice: uso la griglia cartesiana/volumi cartesiani e uso i pattern vettoriali/volumi formless. Insieme. E li lascio evidenti nel loro conflitto. La geometria cartesiana nei miei progetti significa anche codice storico dell’architettura razionalista–albertiana. Decomposta. Mentre il codice formless, termine rubato alle arti figurative, il rapporto con la natura: non credo che per essere ecosostenibili dobbiamo risolvere solo in modo tecnologico i nostri volumi…..ma anche, come architectural designer, assumendone figurativamente i suoi fondamenti vettoriali, il codice genetico, della natura-terra. 
Da questo nasce una sperimentazione che è, in Italia, considerata da alcuni critici che stimo, radicale. Non ho capito bene cosa significhi. Ci sto riflettendo.
Sono di origine trentina, roveretana e fin da piccola sentivo parlare di Adalberto Libera, Gino Pollini, Fausto Melotti, Fortunato Depero, tutti nomi allora non evidenti, anzi omessi, dalla cultura architettonica ufficiale. Per noi che respiravamo quei nomi, negli anni ’70, l’avanguardia -il Gruppo 7, era il destino da cui doveva passare ogni architetto attraverso l’azzeramento di un codice logorato e la rimessa a punto di uno proprio at societatis.

4. I libri veri, per l’architetto, sono in realtà pochi e pochissimi dovrebbero stare in tasca. Spesso penso che ho letto troppo e che vorrei regalare tutti i miei libri. Credo che i migliori siano quelli scritti dagli architetti progettisti o dai poeti.
Direi Element di Cecil Balmond. E il Peter Eisenman in alcuni pezzi di la Fine del Classico. Ma del Novecento amo molto alcuni passaggi di Mies nelle sue lettere a Romano Guardini.




da "il Sole 24 Ore" Progetti e Concorsi, nov 2007
CECIL BALMOND. PATTERN_ NATURE_ LANDSCAPE. 
di Raffaella Laezza

Lo scarto. Se nato a Sri Lanka bastasse per definire i suoi caratteri somatici. Se la sua postura oculare fosse sufficiente per definirlo sciamano. Se , infine, ci fosse la possibilità di dire che innesca processi innovativi entro il rapporto architettura-ingegneria. Il tutto non sarebbe sufficiente per comunicare che si tratta di Cecil Balmond. A cui, in questo momento,il Louisiana Museum of Modern Art di Copenhagen dedica una mostra : “ Cecil Balmond. Unfolding New Dimension”. Frontiers of Architecture1”(giugno-ottobre2007). Spazi densi di video, prototipi ,maquettes in plastica e carta,a tutte le scale . Metallici grigliati cartesiani portati alla geometria vettoriale, morbida.
In una sua frase il senso del suo lavoro:“ Il nuovo umanesimo è riconoscere in natura il potere del pattern,multilayered,catalitico di cui noi stessi facciamo parte. Il pattern è fortemente nascosto dentro la nostra coscienza in molti modi: dalla semplice aggregazione di strutture molecolari entro una spirale spaziale al paesaggio della natura. Quando noi progettiamo , rompiamo una risonanza con i profondi e nascosti archetipi delle forme. “.
Andare alle origini delle cose, della forma architettonica, è uno dei gesti che Cecil Balmond ci trasmette, tra infiniti disegni matematico-compositivi, equazioni, e le sue realizzazioni con Rem Koolhaas, Shigeru Ban, Peter Kulka Toyo Ito, Ben van Berkel, Daniel Libeskind, Alvaro Siza. E, i suoi scritti di cui tratteniamo “Informal” del 2002 dedicato a Ove Arup ( nel 2004 vince il premio Banister Fletcher Prize come migliore libro d’architettura) o il più recente “Element” .
Un architect-engineering di nuova formula: non sta prima o dopo l’architetto ma a priori del concept di entrambi. Con un connotato: la sperimentazione di strutture che derivano dal digitale.
Se ne presuppone una singolarità. Una possibilità di” rethink architecture” e di una nuova estetica. Perché : dalla geometria vettoriale del digitale propone una derivata nel campo della costruzione avanzando una nuova possibile triade pattern-vettorialità-statica .
Pattern figurativo come codice basico, struttura,ritmo.
Vettoriale,come luogo della geometria multidirezionale.
Statica come relazione con la forza di gravità ipertesa, olimpica, invincibile.
Ne risulta una triade attraversata da una continua vibrazione: quella di una immaginazione portata agli estremi. Ecco l’Informal di Balmond . Per esso si associa con la matematica, la fisica quantistica, e gli spartiti musicali ma ne prevede contemporaneamente l’estremizzazione delle leggi poiché le porta all’intelligenza creativa. Si tratta di una nuova estetica. Dove “architectural design e innovative structure stanno insieme”.
L’ operazione di individuazione del pattern si avvale delle conoscenze biologiche, genetiche , delle loro leggi : questo significa, per traslato, andare a indagare i processi naturali nei suoi principi fondativi nei suoi codici genetici. Balmond concepisce la Natura come pattern-maker :” la vita stessa è informazione :i suoi algoritmi sono una misteriosa combinazione dell’elettronica “. Soffermandosi sui principi naturali, ne studia le strutture in continuo dinamismo e le traduce in geometria vettoriale. Per l’ architettura. Le sue strutture le definisce “deep structure” . Da un algoritmo, ne estrae una infinita possibilità di linee-direzioni che morbide o rigide disegnano spazialità informali. Simili a quelle che ci restituisce la natura se guardiamo i suoi sistemi entro un matematico movimento , figlio di una geometria non lineare, altra dalla geometria euclidea. Così in una sua recente intervista :…..:“Non ci sono pre-definizioni, solo comandi segreti……….la ripetizione di elementi genera sequenza, ritmo e proporzione. La serie di Fibonacci è un algoritmo naturale. La natura costruisce su un concetto di moltiplicazione, mescolamento, sovrapposizione….Il costruire della natura potrebbe essere visto nella relazione tra i suoi quattro elementi terra-aria-acqua-fuoco….. dove la terra è l’elemento forte e gli altri sono formless”. E aggiunge: “ Se mettiamo da parte l’idea sentimentalista della natura come grande madre accogliente noi vediamo che la sua essenza è un prodigioso campione, un pattern maker di infinito talento. Qui il semplice e il complesso informano uno all’altro, la natura diventa uno scambio continuo, collettivo e perde la sua caratteristica gerarchica. Magnificare i pattern della natura procura informazione per l’architettura”. Ne esce un Balmond che si fa portatore della possibilità di incorporare nella conoscenza architettonica altre discipline :egli infatti ci parla di “trans-disciplinary methods”.
Il tutto dovrebbe risultare illuminante, per chi affronta la ventennale e complessa questione del rapporto architettura-natura-ecologia portandola al semplicismo tecnologico , tecnico . Poichè “eco” può significare anche andare più a fondo , a scovare i principi strutturali della natura. Riconoscerla nella sua processualità temporale, nelle sue regole genetiche e portarle sul piano figurativo , artistico, architettonico. Costruttivo.
L’ andare al gene di Balmond ci suggerisce la non conferma di modelli culturali consolidati e la potenzialità di muoversi su un piano trasversale, inclinato imprevedibile.”Non abbiate paura delle configurazioni casuali” la frase chiave di una sua comunicazione a Bordeaux raccontando Serpentine Gallery Pavilion realizzata a Londra nel 2005 con Alvaro Siza ed Eduardo Souto de Moura . Si tratta di uno dei suoi esempi primi di pezzi di architettura dell’Informal ottenuto con griglie morbide,elastiche,soft. Lignee.
E con simile provocazione farà con Toyo Ito , la Taichung Metropolitan Opera House, Taiwan, 2006-2009 .Con Shigeru Bahn e Jean de Gatines la copertura del Centre Pompidou a Metz 2004-2009. Infine gli Showcase, Offices Gateway per Battersea Power Station pensati nel suo laboratorio a Londra , come direttore di ARUP, con un nuovo unit da lui stesso fondato nel 2006 : AGU Advanced Geometry Unit .
Una sua recente affermazione : “La natura diventa viva con le forze ed il pattern è esso stesso una forza della natura” . Un pattern svelato da Balmond significa dunque avere un nuovo pezzo di architettura.
Vero e proprio scarto se per esso si intende distacco, differenza, salto culturale. 





Per Peter Eisenman , Città della Cltura Santiago de Compostela,
UN NUOVO SILENZIO
di Raffaella Laezza.

E’ in via di conclusione, di Peter Eisenman, la Città della cultura a Santiago de Compostela. Ed è già masterpiece, icona contemporanea. Per questo progetto, 21 parole, semplici verbi.
Uno. Provare a visitare questa architettura. Sul Monte Gaias a pochi passi fuori Santiago. Capitare al mattino prestissimo. E rimanerci due, tre giorni.
Due. Esserci significa riuscire a portare, facilmente, il pensiero al di là dalla storia, della contemporaneità e sintonizzarsi con la cifra di cattedrali romaniche, spazi egizi. Ed è sosta.
Tre. Camminare accelerati dai 686.000mq che la definiscono misuralmente tra superficie urbanizzata (175.000mq) e non, e tra gli edifici. Essere fuori e dentro contemporaneamente i sei edifici che la compongono: Biblioteca (26.000mq) conclusa, Archivio (9.600mq) concluso, Museo (20.800mq) in fase di conclusione, Centro arte internazionale (16.000mq) in fase di conclusione, Servizi centrali (7.500mq) concluso, Centro musica (55.000mq), le cui fondamenta affiorano come prime strutture cementizie cartesiane. Entro il 2012 la città sarà terminata e i lavori sono iniziati nel 2001. 
Quattro. Fermare l’occhio sui milioni di pezzi di quarzite che la misurano, ricoprendola, in copertura, parti di prospetto, pavimentazioni con moduli minimi da 30cmX30cm e massimi, in copertura, per la griglia di 16mx20m. Sfumature grigie, bianche, auree, rosastre. Tra brandelli di terra, di fresco scavo, a lato.
Cinque. Stare qualche ora nella biblioteca, gia attiva, interno bianchissimo: vedere tra tagli finestrati gli altri pezzi esterni. Essere tra un libro posato, una colonna cartesiana 1,20mx1,20m alta 12 m e un morbido, truce, potente volume. Mai troppo grande, né troppo piccolo perchè senza scala.
Sei. Potere sentirsi costantemente in uno stato di silenzio appena fuori dal centro urbano di Santiago peraltro gia incline ad un simile voto.
Sette. Trovarsi, nell’incedere, a salire su una copertura invitati dai volumi architettonici portati in continuità con la linea terra. Fluente.
Otto. Fermarsi negli spazi interstiziali tra i volumi alla prima visuale, lontanissima, verso il territorio circostante mai negato. Poi, nella seconda, appena pochi passi in là, vedere un altro, nuovo, dilatato punto sull’orizzonte di Santiago. Persiste un gioco di spazialità vettoriale ricavato nella natura geologica della collina alla quale è stata ripristinata una nuova natura, artificiata.
Nove. Sentirsi sempre sedotti dal piano costruttivo, qui sublimato da inevitabili e piccolissimi errori di cantiere. Struttura in cemento armato e acciaio. 
Dieci. Aspettarsi di tutto, anche il generoso gesto, dedicato all’amico John Hejduk della costruzione delle sue due torri (350mq) ora sede di convergenza degli impianti.
Undici. Non pensare più ai saggi di Eisenman su Giuseppe Terragni, o ai suoi Diagram Diaries, le sue X Houses, o al fondamentale testo “La fine del classico”.
Questo luogo, per essere colto, non necessita degli strumenti della storiografia, filologia o di un  racconto. Ma di una intelligenza emozionale.
Dodici. Cogliere il tattile codice genetico del progetto, programmato al computer, e costantemente verificarlo attraverso centinaia di modelli: una grande sala, vicino all’ Archivio, ne testimonia il process. Leggere la stratificazioni di steps, che compongono il palinsesto compositivo,le piante dei livelli di costruzione ed i plasticismi complessi delle forme curve nelle tre direzioni
Tredici. Percepire un’organizzazione tra volumi che in una sotterranea linea (larga 9m, lunga 525m, quota -7m) coordina i servizi ai rispettivi teatro, museo, biblioteca, archivio. E, in quota, ne evita il racconto lasciando spazio ad ampi vuoti di sosta.
Quattordici. Visitare il cantiere singolo, quasi concluso, del museo. Oggi è possibile a chiunque: la Fundacion Cidade da cultura de Galicia ne organizza visite continue. Anche questo è un interno bianchissimo a tutta altezza (35m) luogo di possibili, vorticosi, stati. La sua sezione principale, una  grande e modulata parete vetrata, mette in raccordo con un’unica morbida  linea, il dorsale della collina. E qui invita a vedere, la cattedrale romanica, del carismatico e poco lontano centro religioso. La cattedrale, ricoperta di pietra grigia e accarezzata da licheni gialli, muschi olfattivi, ci sta, per contrasto, con la novitas del centro laico.
Quindici. Incontrare i capi cantiere, i nuovi direttori della biblioteca e del museo o gli organizzatori della Fondazione: percepire una partecipazione alla costruzione, orgogliosamente galiziana, di un’opera che porterà Santiago ad una nuova temporalità. Già la città, con varie amministrazioni, ha realizzato segni di altri architetti: Alvaro Siza, Alberto Viaplana, Giorgio Grassi,  John Hejduk. Una piccola realtà urbana che ha portato senza fatica apparente il lavoro multiforme della cultura tarda del novecento e che sfida, con Peter Eisenman, un salto fuori dalla cronologia.
Sedici. Mescolarsi tra visitatori, gia a fiotti, e mai abbastanza per ritenere che questo luogo sia troppo visitato:  la sua ascalarità trascende il troppo, il poco.
Diciassette. Pensare che quando un edificio coglie,internamente, la geometria delle  grandi linee della geologia, del landscape, passa ad un classicità che appartiene istintivamente a tutti e che, simultaneamente, è silente di retorica. Niente intellettualismi, accademismi: tutto passa in secondo piano. Si intuisce che la ricerca contemporanea aspettava questo lavoro, di incontro, aperto, alle forme geometriche della natura accompagnandoci in un nuovo punto dell’architettura. Architettura come stato di conoscenza, che tocca lo spirito.
Diciotto. Capire che il  monte Gaias è dotato di un nuovo, apparentemente ostile, silenzio. E che di questo silenzio, nell’architettura, tutti ne sentivamo la necessità.
Diciannove. Aspettare l’imminente conclusione dei lavori anche se, come la cattedrale di Gaudì, forse ci sarà sempre qualcosa in leggera mutazione.
Venti. Ritornare nella realtà italiana e pensare che se i progetti del maestro americano per esempio per Napoli non saranno realizzati, forse  si perde qualcosa.
Ventuno. Prendere atto che se la Xunta de Galicia ha, oggi, costruito un luogo simile per la cultura quest’ultima è ancora una priorità.